Il dialetto del paese

Il dialetto parlato a Villaurbana è una delle tante varietà del campidanese, a sua volta macropartizione della lingua sarda, lingua non monolitica ma estremamente articolata e differenziata.

Descrizione

Il villaurbanese, come tutti gli idiomi, è uno specchio che riflette le vicissitudini storiche e reca traccia delle lingue delle diverse popolazioni che si sono avvicendate in Sardegna: si tratti di presenza momentanea, di stabile occupazione o, ancora, di intensa dominazione.

Il sostantivo pre-latino

I segni linguistici precedenti l’arrivo e la conquista dei romani sono avvolti nella più buia oscurità – se si esclude qualche lume relativo alla lingua punica.
Si ha traccia di un antichissimo sostrato mediterraneo che presenta contatti con il sostrato che si registra nella penisola iberica e più in generale nell’area euro-africana.
I termini cugurra (“insetto che vive sotto la corteccia della pianta”), sakkayu (“agnello di un anno”), giagaru (“cane da caccia”), da cui agiagarai (“allontanare con rimprovero”, “espellere”), non sono riconducibili al latino ma a una lingua precedente e trovano degli addentellati, delle corrispondenze con termini presenti nelle lingue della penisola iberica. Certo non si può concludere che il sostrato dell’iberico e quello del sardo coincidano, tuttavia - il dato è plausibile – si può affermare che la Sardegna sia legata alla penisola iberica da tempi remotissimi. Nel dialetto parlato a Villaurbana, oltre ai termini citati, ricordiamo ancora kukkuru ('cima', “sommità”) da cui sono derivati kukkaiõi (“crocchia”, “treccia di capelli avvolta e fermata sulla cima del capo o della nu-ca”), (i)skukkau (“calvo”) e akkonkai (“fare un colpo di testa”, arrischiare”).
Riferibile, invece, a un fondo più genericamente euro-africano è la voce matta (“pianta”), voce da alcuni studiosi accostata a lemmi spagnoli, ma sicuramente prespagnola (compare infatti in antichi documenti medioevali sardi, precedenti l’arrivo e soprattutto la stabilizzazione degli spagnoli e la diffusione della loro lingua).
Altri termini non sono riconducibili a nessuna area in particolare – né iberica né africana – e possono essere ascritti a un fondo linguistico ancora più antico; pensiamo a pentuma (“passaggio angusto, impervio”), che pare sopravvivere nel nostro spantumu, e a cea (“pianura”); pensiamo anche a tsonca (“civetta”).
Per via della presenza in Sardegna di colonie greche, parecchie sono le voci che hanno attecchito e per così dire fatto fortuna, rimanendo innestate nel sardo; sono di origine greca kaskai (“sbadigliare”) e allakkaĩai (“appassire”, “avvizzire”). Per la precisione, va detto che molti cosiddetti grecismi, essendo comuni ad alcuni dialetti dell’Italia meridionale, potrebbero essere attribuiti ad una più ampia zona di latinità che li ha assorbiti al suo interno e poi irradiati in aree circostanti.
Sempre prima dell’avvento del latino, il punico ha lasciato un’impronta sul nostro dialetto, consegnandoci il termine mittsa (“polla d’acqua”, “sorgente”): sebbene il termine non sia attestato propriamente per la lingua cartaginese, è indubbio che la voce sarda risalga ad una forma punica equivalente all’ebraico metsa.

 

Il fondo latino

Le pur scarse allusioni alla lingua dei sardi in alcuni passi di scrittori medioevali non lasciano dubbi sul fatto che il sardo desse – e dia tuttora – a tutti l’impressione di idioma strano e confuso. Basti, uno per tutti, il pensiero di Dante in un passo del De vulgari eloquentia: «Sardos etiam, qui non Latii sunt sed Latiis associandi videntur, eiciamus, quoniam soli sine proprio vulgari esse videntur, gramaticam tanquam simie homines imitantes: nam domus nova et dominus meus locuntur»; tale affermazione non fa che porre l’accento sul fortissimo aspetto latino del sardo, molto conservatore e poco evoluto.

Non si tratta di un giudizio aspro e negativo, è solo che secondo Dante non si poteva tener conto del sardo nella ricerca del volgare illustre, perché i sardi – ancora a suo dire - non avevano un volgare proprio ma erano legati alla imitazione del latino e parlavano latino: dunque una idea molto vaga e confusa del carattere del sardo.
Anche il villaurbanese è il risultato dell’evoluzione del latino nello spazio e nel tempo e del latino conserva parole antichissime. Citiamo innanzitutto il termine makku (“matto”) che risale alla più arcaica latinità: un termine che non si riscontra in altri territori romanzi e che ricorda il MACCUS delle atellane di origine osca.
Si riscontra la presenza di vocaboli che mantengono ancora il significato che avevano originariamente in latino, come trobi’ – da INTERPEDIRE - (“legare i piedi alle bestie”) o come agĩa – da ACINA - che ha conservato il primitivo senso collettivo di “uva” (già Catone lo usava per indicare i singoli acini); altre voci hanno mantenuto l’aspetto formale ma variato il significato: è il caso di sattu - da SALTUS - che in origine significava “luogo boschivo” mentre oggi indica il “territorio di un comune” in senso lato, la sua campagna oltre e al di fuori dell’abitato.
In altri casi registriamo una estensione di significato; pensiamo alla storia del termine cida: il latino ACCITA in origine designava la “schiera di persone di guardia chiamate per turno a certi servizi durante la settimana”, divenne poi sinonimo di “settimana”; un passaggio semantico svoltosi nel sardo stesso.
Sono numerosissime le concordanze di termini di matrice latina con termini latini attestatisi in Romania (l’antica Dacia), nella penisola iberica e nell’Africa settentrionale.
I parallelismi con il rumeno non sorprendono molto; la Romania, come la Sardegna, è area laterale e isolata; inoltre il popolo rumeno, come il popolo sardo, ha una cultura pastorale che implica una concordanza di termini della vita rustica risalenti ad uno stesso strato arcaico. A titolo esemplificativo facciamo riferimento alle voci derivate da CUNEARE (“chiudere”), cungiai e in-cuita (in rumeno); è già nei testi antichi che cungiau significa “coltivo chiuso”; il tutto testimonia, però, solo della conservazione di determinate forme irradiate da un centro comune, l’Italia meridionale, e Roma, chiaramente, in due aree laterali, attesa l’impossibilità di un rapporto diretto.
Non meno importanti sono le parentele con l’Iberia; esempio di concordanza sardo-iberica è costituito da CHORDA (“intestini di pecora o di capra intrecciati ed arrostiti sulla cenere”): cordella e cordilons in Spagna, codra a Villaurbana; o ancora, rispettivamente, preguntar/perguntar – pregontai - dal latino PERCONTARE (“chiedere”/“domandare”).
Anche resti del latino parlato nell’Africa del nord, conservatosi nei dialetti berberi e talvolta nell’arabo di quella regione, rivelano una parentela con la Sardegna. CARTELLUS (“cesti-no per il pane”, “canestro”) vive nel villaurbanese (i)skattéddu, nel siciliano-calabrese kartéddu, nell’arabo-magrebino gertella, nel berbero agartil-agertil. Significativa traccia della corrente che alla Sardegna giungeva dall’Africa romana è evidenziata dal vocabolo cenabara (“venerdì”) - dal latino COENA PURA, attestato in Agostino e utilizzato dagli ebrei d’Africa, anche da quelli poi deportati sotto Tiberio in Sardegna – per designare la vigilia del sabato.
Gli unici documenti cui si può fare appello per ricercare l’inizio di quella particolare differenziazione del latino che avrebbe dato origine al sardo sono le iscrizioni, quelle cristiane in particolar modo – e sulle iscrizioni compaiono le abitudini linguistiche dell’uomo sardo; tra tutte si può citare la sostituzione di V iniziale con b, definita betacismo, in virtù della quale si ha, per esempio, bia (“via”, “strada”) – da VIA – e bidda (“paese”) – da VILLA.

 

Gli apporti del superstrato

Certa importanza assume il periodo post latino perché la Sardegna, recisa dal tronco vivo della latinità, comincia a sviluppare in maniera indipendente il proprio volgare neo latino, comincia a svilupparsi e nasce, insomma, anche il villaurbanese.
Pensiamo all’influsso esercitato dai pisani e dai genovesi, una volta stabilitisi sull’isola dopo aver sconfitto i saraceni e citiamo alcune delle numerosissime parole del toscano antico entrate – con vari mutamenti e adattamenti – in sardo: kwarra è una misura di capacità per cereali (25 litri) e deriva dal toscano antico quarra (misura equivalente alla quarta parte dell’oncia); ciaffu (“schiaffo”) è da ciaffo, ingiassu (“ingresso al podere”) è da chiasso (“via”/“passaggio rurale”), fancedda (“concubina”/“amante”) è da fancella, aggittoriu (“esclamazione/grido e richiesta di aiuto”) è da aiutorio.
L’apporto del catalano e dello spagnolo è marcatissimo: le due lingue si innestano negli idiomi parlati nell’isola e si intrecciano.
Il villaurbanese presenta contatti talvolta con voci catalane, talvolta con voci castigliane.
Un calco innanzitutto: acquadrenti (“acquavite”) è da ayguardent (catalano) e da aguardiente (casigliano).
Sono numerosissimi gli iberismi in genere e riguardano tantissime sfere della vita. Dal linguaggio dell’amministrazione è filtrato bugg/?u (“boia”, “carnefice”); dal linguaggio ecclesiastico sono stati recepiti para (“frate”), mattrakkadasa (“tavolette di legno” che si suonano durante il triduo pasquale in giro per le vie del paese), coggius (“canti popolari religiosi”) e santugristu’ (“crocifisso”).
Anche parte dei costumi tradizionali, capi di vestiario e oggetti domestici come barrita (tipico copricapo maschile), dal catalano berretta, mukkadori (“fazzoletto”) - dal catalano muca-dor, bottasa (“stivali”) - dallo spagnolo botas, kodrõerasa (“lacci delle scarpe”), migia (“calza”), randa (“merletto”, “trina”), mantallaffu (“materasso”), manta (“coperta”), koscinera (“federa”) - dal catalano coixinera - hanno assunto nomi spagnoli o catalani. Così per numerosi termini relativi alla cucina e alla pasticceria, a mobili, suppellettili e parti della casa, a piante o erbe per lo più ornamentali che servono per la cucina, alla vita e alle varie occupazioni domestiche, a vari mestieri e arti. Ecco qualche vocabolo: gueffusu (“dolci di mandorla”), pirikkittusu (“zuccherini rotondi molto dolci”), brugnolusu (un fritto) arravell’i’ou (“zabaione” - dal catalano rovell), murtzai (“far colazione”); kullera (“cucchiaio”), salvatta (“vassoio”), tassa (“bicchiere”); fantana (“finestra” - dallo spagnolo ventana), kadasciu (“cassetto”), kadira (“sedia”, anche se per un villaurbane qui si tratta semplicemente di una variante del logudorese kadrea, il vero superstite del latino CA-THEDRA); affabbica (“basilico”), gravellu (“garofano”), mattafalluga (“anice”); imbidõi (“ami-do”, utilizzato per stirare i capi di abbigliamento); manobra (“l’aiutante/apprendista del muratore”), bovida (“volta”), arrabbussai (“intonacare”), biga (“trave”), trappanti (strumento utilizzato per fare i buchi sulle cinte di cuoio), aĩas (attrezzi in genere).
Ancora di ascendenza iberica è uno dei saluti di commiato, come adiosu (“arrivederci”), il termine attobiai (“incontrare”, “imbattersi in qualcuno” - dallo spagnolo topar) e akkuntessi’ (“capitare”, “avvenire”, “succedere”) ormai quasi sostituito dal termine italiano succedere (suttzedi’), luegusu (“subito”), ollierasa (“occhiali”), baullu (“feretro” - dal catalano baùl), interramottusu (“becchino”), leggiu (“brutto”).
In relazione a due ragazzi che fanno il filo, ancora si usa il termine fastiggiai (atteggiamenti di reciproco corteggiamento); qualche anziano continua a far riferimento alle antiche monete e a parlare di arriabisi (dallo spagnolo red).
Alla fine della dominazione spagnola la Sardegna fu raggiunta da numerosi impiegati, commercianti e artigiani piemontesi: di qui il passaggio e il travaso di vocaboli come drollu (“negligente nel vestire e negli atti”, “sciatto” e, per estensione, “incapace”) e scuppai (“alzare le carte”) nel gioco delle carte, ma anche di termini attinenti la cucina, come tammatiga (“pomodoro”) e bagna (“sugo”).
Citiamo ancora alcune parole importate dai pescatori siciliani che si stabilirono a Cagliari e in altre parti della Sardegna meridionale, parole che si sono diffuse e vivono anche nel villaurbanese: kaddotzsu (“zotico”, “sudicio”), kannakka (“collana”), voce di origine araba diffusa in molti dialetti dell’Italia meridionale; di ascendenza siciliana (busi) e ancora di origine araba è busas(a) (“ferri da calza”).

I vari influssi linguistici di sostrato e di superstrato, che incidono sia in superficie sia in radice, disegnano la figura di un mosaico le cui tessere denotano certo la pluralità delle componenti idiomatiche ma fanno emergere una unità e individualità che è quella del dialetto villaurbanese.

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Pagina aggiornata il 14/05/2024